di Paolo Scroccaro
«Diorama Letterario», n. 151, settembre 1991
Il primo libro di Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù; viene pubblicato nel 1921. I primi capitoli propongono una particolare lettura del mondo greco antico, secondo una prospettiva che intende colpire alcuni pregiudizi interpretativi ampiamente diffusi nell’età moderna. Innanzi tutto, viene messa in discussione la pretesa superiorità della civiltà greco-romana, pretesa fondata sulla ignoranza di altre forme di civiltà, spesso più antiche di quella in questione. Guénon sottopone a critica le vedute unilaterali degli storiografi occidentali, «intellettualmente incapaci di superare i limiti del Mediterraneo»1, i quali hanno elaborato la tesi fantasiosa e inconsistente del cosiddetto “miracolo greco”, tesi che, con sfumature diverse, è stata riproposta anche in tempi più recenti, ottenendo un successo inversamente proporzionale ai meriti.
Si può comprendere il senso della acredine guénoniana, ove si tenga presente lo scopo del testo citato all’inizio: si tratta di presentare le dottrine indù nella loro portata eminentemente metafisica, portata che solitamente viene attribuita alla filosofia greca e negata all’Induismo (e ad altre correnti spirituali orientali), cui si riconosce volentieri una dimensione più che altro religiosa e mitologica, dando a questi termini un significato prevalentemente negativo, che fa pensare al non speculativo. Guénon, nel prendere le difese dell’Induismo contro i detrattori di vario genere, non si limita a porre il problema della pluralità delle civiltà antiche contro l’etnocentrismo occidentale, abituato ad esaltare la Grecia quale culla del mondo moderno: ben di più, intende evidenziare le lacune del mondo greco-romano proprio da un punto di vista metafisico. Questi due aspetti della polemica guénoniana vanno accuratamente distinti, perché si occupano di questioni diverse e non si implicano necessariamente, anche se vi è, ovviamente, qualche punto di contatto.
Occorre precisare che l’impostazione riduttivistica delle storiografie moderne più accreditate è un frutto tipico della mentalità moderna, come tale non attribuibile ai Greci. Una parziale conferma di ciò viene dallo stesso Guénon, il quale scrive che «i Greci hanno adottato quasi tutto dagli Orientali, almeno dal punto di vista intellettuale, ed essi stessi lo hanno ammesso abbastanza sovente» (Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, pag. 29). A pag. 43 dell’opera citata, egli si riferisce al noto passo del Timeo platonico, là dove il sacerdote egizio così si rivolge al pur saggio Solone:
«O Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste! Voi siete tutti giovani d’anima, perché in essa non avete riposta nessuna vecchia concezione d’antica tradizione…» (Timeo, 22 B-C).
In effetti, nel platonismo e in altre correnti filosofiche antiche possiamo trovare innumerevoli riferimenti di questo tenore, i quali attestano che i maggiori filosofi greci non si ritenevano degli innovatori rispetto al passato e ad altre forme di civiltà; essi erano gli ultimi a supporre un presunto miracolo greco, il quale risulta essere, in effetti, un’invenzione ad uso e consumo dei moderni, impegnati a costruire un’immagine evoluzionistica della storia culminante nel presente, immagine del tutto estranea allo spirito della classicità, disposta a riconoscere gli influssi provenienti da altre civiltà.
II secondo aspetto inizialmente citato della polemica guénoniana risulta più complesso e problematico, perché riguarda l’individuazione di limiti strutturali del mondo greco (ancora più accentuati in quello romano), che possiamo inventariare come segue:
a) il mondo greco-romano ha esaltato il culto della natura, estraneo alla tempra metafisica degli Orientali, dato che
«il naturalismo, sotto tutte le forme di cui è suscettibile, costituisce agli occhi di uomini che si possono dire metafisici per temperamento non altro che una deviazione, se non addirittura una vera e propria mostruosità intellettuale» (Introduzione…, cit., pag. 32);
b) la religione può essere intesa in due modi: come ciò che congiunge gli uomini ad un principio superiore, oppure, più semplicemente, agli altri uomini.
«Prendendo in esame l’antichità greco-romana […] è certo che la nozione di religione partecipava di questa doppia accezione e che anzi la seconda aveva molto sovente una parte preponderante» (Introduzione…, cit., pag. 76).
Sarebbe quindi già prevalente quella propensione umanistica ed immanentistica che avrà libero corso nella storia successiva dell’Occidente;
c) i Greci, quanto meno a partire dall’epoca classica, evidenziano delle notevoli incapacità per quanto concerne la comprensione di ciò che li legava alla tradizione:
«Presso i Greci particolarmente, i riti e i simboli, retaggio di tradizioni più antiche e già dimenticate, avevano per tempo perso il loro preciso significato originario; l’immaginazione di questo popolo che si esprimeva secondo la fantasia individuale dei suoi poeti, li aveva ricoperti d’un velo quasi impenetrabile, ed è questa la ragione per cui filosofi come Platone dichiaravano espressamente di non sapere cosa pensare degli scritti antichi in loro possesso riguardanti la natura degli dei. Di conseguenza i simboli erano degenerati in semplici allegorie e, a causa di una invincibile tendenza alle interpretazioni antropomorfiche, si erano trasformati in miti, vale a dire in favole di cui ciascuno poteva pensare quel che più gli piacesse a patto che conservasse almeno superficialmente l’attitudine convenzionale imposta dalle pressioni legali» (Introduzione…, cit., pagg. 76-77);
d) Guénon, a più riprese, deplora la ristrettezza mentale dei Greci, un limite costituzionale che avrebbe ad essi impedito di arrivare ad una metafisica completa, intesa quale conoscenza dell’Infinito, della Totalità universale. II pensiero greco si sarebbe accontentato di sviluppare il momento “razionale” a detrimento di quello veramente “intellettuale”, esasperando così il valore dei ragionamenti fini a se stessi, delle dispute dialettiche.
«Ciò che è realmente caratteristico dei Greci, ma non depone molto a loro favore, è una certa sottigliezza dialettica di cui i dialoghi di Platone offrono numerosi esempi, dai quali traspare il bisogno di esaminare indefinitamente una stessa questione sotto tutti gli aspetti, prendendola in considerazione nei minimi particolari per giungere ad una conclusione più o meno insignificante» (Introduzione…, cit., pag. 29);
e) nonostante le severe prese di posizione precedentemente riassunte, Guénon ammette la presenza di elementi metafisici nel pensiero dei Greci, e cita la parte metafisica dell’opera di Aristotele; solo che
«a proposito di quest’ultima si potrebbe anzi segnalare certe similitudini un po’ troppo precise per essere puramente accidentali» (Introduzione…, cit., pagg. 38-39).
Guénon qui allude a certe somiglianze, anche nei dettagli, tra metafisica aristotelica e indù (per altro non esplicitate nel testo), per cui si sente comunque legittimato a sostenere la tesi di influenze indù su Aristotele (esse riguarderebbero non solo la parte metafisica, ma anche quella logica). In definitiva, si intende affermare che quel che c’è di migliore nel pensiero greco non può essere che il risultato di prestiti dall’Induismo, essendo l’anima greca di per sé costituzionalmente incapace di sorpassare il naturalismo ed il razionalismo.
II capitolo IV dell’opera che stiamo citando dall’inizio, è interamente dedicato alle “Relazioni tra i popoli antichi”, con lo scopo di ipotizzare, già prima di Alessandro, contatti tra la Grecia e l’India, che avrebbero permesso ai Greci di conoscere le varie dottrine orientali (tra cui anche quelle buddhiste). Accettando come veritiero tale contesto, risulterebbe più facilmente avvalorabile l’ipotesi degli influssi indù su Aristotele, anche in assenza di quelle specifiche prove documentarie vere e proprie, che stanno a cuore agli storici. Continuando su questa falsariga, la storia della filosofia greca viene letta in funzione dell’Induismo: le impennate metafisiche sarebbero senz’altro dovute ai rapporti con esso, e i cedimenti al venir meno di tali insostituibili influssi.
«Dopo Aristotele le tracce di un’influenza indù sulla filosofia greca diventano sempre più rare, se non addirittura nulle, mentre quest’ultima si rinchiude in un campo sempre più ristretto e contingente, sempre più lontano da ogni vera intellettualità. […] Solo con i neoplatonici si vedranno ricomparire influenze orientali, ed è anzi proprio a quel momento che si incontreranno per la prima volta presso i Greci certe idee metafisiche, come quella dell’Infinito. Fino allora i Greci non avevano avuto infatti che la nozione dell’indefinito, e, tratto veramente caratteristico della loro mentalità, finito e perfetto erano per essi sinonimi; per gli Orientali, al contrario, sinonimo di Perfezione è solo l’Infinito» (Introduzione…, cit., pagg. 39-40);
f) dopo il Neoplatonismo, si ha un certo riavvicinamento alla metafisica e allo spirito tradizionale nel medio evo, «indirizzato molto più sensibilmente alla speculazione pura» (Introduzione…, cit., pag. 30), e caratterizzato qualitativamente dalla presenza della dottrina scolastica, anche se
«la metafisica non vi fu mai così nettamente svincolata, come normalmente dovrebbe, dalla teologia, vale a dire insomma dalla sua applicazione speciale al pensiero religioso, e altresì che quanto vi si trova di propriamente metafisico non è mai completo, e soggiace a talune limitazioni che sembrano essere tipiche di tutta l’intellettualità occidentale» (Introduzione…, cit., pagg. 73-74).
Queste posizioni vengono riproposte qualche anno dopo: in Oriente e Occidente (1924) viene rinnovata la critica ai Greci, in quanto «incapaci di liberarsi della forma»; il periodo alessandrino-neoplatonico, apprezzato perché momento di avvicinamento all’Oriente, ha il difetto di
«essere rimasto molto più vicino al sincretismo che alla vera sintesi; non vorremmo deprezzare oltre misura dottrine come quelle dei neoplatonici, le quali, in ogni caso, sono incomparabilmente superiori a tutte le concezioni della filosofia moderna; ma in fondo è certamente preferibile risalire alla fonte orientale che non passare attraverso degli intermediari […]giacché le civiltà orientali esistono tutt’ora, mentre la civiltà greca non ha avuto continuatori. Quando si conoscono le dottrine orientali ci si può servire di esse per comprendere meglio quelle dei neoplatonici, e altre, più propriamente greche[…] ma l’inverso non è possibile».
Per quanto riguarda il presente, il Cattolicesimo viene indicato come l’unico rifugio dello spirito tradizionale, «a parte le eccezioni individuali che possono sempre esistere fuori d’ogni organizzazione»2. Occorre perciò guardare al Cattolicesimo medievale (perché non contaminato da idee moderne), al fine di trarne ispirazione per possibili adattamenti resi necessari dalle circostanze odierne.
Gli orientamenti generali sopra delineati vengono ridiscussi in scritti successivi, dei quali sarà opportuno considerare alcuni basilari sviluppi. In tale contesto le indicazioni di Guénon verranno confrontate con altre, alcune delle quali emerse in questi ultimi decenni, selezionando quelle che sembrano più significative ed adatte ad un riesame dei temi in oggetto.
Sui prestiti dei Greci e sulle corrispondenze con altre tradizioni molti autori hanno evidenziato certe correlazioni occasionali, che comunque danno da pensare, tra la filosofia greca ed altre forme di pensiero; uno di questi è per esempio P. Friedlaender, che ha accostato il mito del carro alato di Platone e i racconti riguardanti Trittolemo e Dioniso alla Katha Upanishad3. In questo caso, e in molti altri simili, si tratta di studi estemporanei, non centrati sul tema di cui stiamo parlando. L’ipotesi dei prestiti e delle corrispondenze era stata discussa con maggiore impegno nella nota opera di E. Zeller, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, tenendo presenti alcune posizioni storiografiche emerse nel XIX secolo. In particolare, sono citati gli studi del Gladisch, che individuano affinità sostanziali tra la concezione cinese e quella pitagorica, tra la concezione indiana e quella eleatica, ecc.; Zeller osserva che tale affinità non giustifica l’ipotesi dei prestiti, perché
«si potrebbe considerare la loro coincidenza come qualcosa che si sia prodotto senza una connessione esteriore fra le une e le altre, ma spontaneamente, sia per l’universalità dello spirito greco, sia per qualche altra causa. […] Se, invece, dovesse riscontrarsi, come Gladisch sostiene, una connessione storica oggettiva fra i detti sistemi greci e i loro modelli orientali, dovrebbe pur esserci la possibilità di dimostrare in qualche modo un tale collegamento; dovrebbe, per mezzo di un esame delle relazioni storiche, esser reso verisimile che Pitagora e Parmenide potessero pervenire a tale conoscenza adeguata delle dottrine cinesi e delle indiane»4.
Occorre precisare che Zeller è comunque fortemente condizionato dal pregiudizio occidentale secondo cui i popoli asiatici probabilmente non avevano nessuna “scienza filosofica”, ma solo elementi mitici, religiosi, cosmologici; tale pregiudizio, unito alla mancanza di documentazione storica circa i supposti influssi diretti, spinge Zeller ad escluderli del tutto, specie per quanto riguarda il versante filosofico, in ciò seguito dal curatore dell’opera, R. Mondolfo, il quale l’ha arricchita di note e commenti critici utili sotto il profilo dell’erudizione.
In particolare, vogliamo ricordare la scheda intitolata Nota sui rapporti fra la cultura e speculazione orientale e la filosofia e la scienza greca (pag. 63 e seguenti dell’opera citata), nella quale Mondolfo riporta a titolo di cronaca, tra le tante, anche le posizioni di A. Weber, Goblet d’Alviella e Burnet, i quali «tendono a capovolgere la vecchia unilateralità, affermando che tutto porta a ritenere al contrario che la filosofia indiana derivi dalla greca» (pag. 66): in assenza di elementi decisivi, qualunque ipotesi può avanzare qualche pretesa! Più interessante può apparire il testo del Mondolfo, là dove scrive che
«quando si considerino le fonti e gli elementi formatori della civiltà greca, non va dimenticata l’importanza essenziale che va riconosciuta all’eredità che proveniva dalla civiltà preellenica, minoico-micenea o egea […] dall’arte e dalla tecnica ai miti e culti religiosi, dalle leggende eroiche alle concezioni religiose-cosmogoniche, i Greci hanno ereditato dai loro predecessori indigeni elementi essenziali della loro cultura e formazione spirituale« (pag. 67).
Non crediamo però che Mondolfo abbia potuto trarre le dovute conclusioni da tale impostazione, perché condizionato, come Zeller d’altronde, dall’idea che la filosofia greca costituisce comunque un progresso rispetto alla cultura preclassica, che quindi può trasmettere al mondo classico “elementi essenziali”, certo, ma considerati di natura prefilosofica nel senso usuale del termine. L’idea di una sapienza originaria, o comunque antichissima, viene infatti ritenuta una mera fantasia da Mondolfo, il quale critica O. Willmann per aver sostenuto tale tesi e quella di una derivazione da essa della filosofia greca, tramite l’intermediazione della religione apollinea e delle dottrine misteriche (v. pag. 64).
La posizione del Willmann contribuisce a tracciare una linea interpretativa (peraltro nota agli antichi e a certi rinascimentali…) che una ricerca storica spassionata non dovrebbe ignorare aprioristicamente, come invece succede, solo perché la mentalità non è disposta a sopportare l’idea di una rivelazione primordiale trasmessa ai popoli.
Per quanto riguarda altri sviluppi della questione principale qui affrontata, l’ipotesi dei prestiti è stata presa in considerazione da A. Somigliana, nel testo Monismo indiano e monismo greco nei frammenti di Eraclito5 e in vari articoli sulla metafisica greca e indù, pubblicati soprattutto nella rivista «Sophia»6, lavori che hanno il grande merito di sottrarsi ai pregiudizi correnti che abbiamo ripetutamente denunciato. La parte più consistente degli interventi di A. Somigliana, ai quali rinviamo, riguarda senza dubbio l’individuazione delle corrispondenze tra Greci e Indù, delle quali viene offerta un’ampia documentazione, comprendente sia la filosofia presocratica che quella successiva, mentre nulla di determinante sembra emergere per quanto concerne l’ipotesi dei prestiti (per la quale l’autrice simpatizza): tolti questi, restano comunque le affinità, numerose e tutt’altro che marginali, perché investono gli assi portanti del pensiero indù e greco; infatti
«tali concordanze non rimangono circoscritte a qualche idea particolare, ma investono tutto il sistema, e non riguardano soltanto la parte teoretica, ma pure quella formale. Questi arcaici filosofi, infatti, parlano un loro particolare linguaggio simbolico, che non è facilmente accessibile a chi non sia iniziato, e che presenta molte affinità con quello dell’antica dottrina vedica dell’Advaita»7.
Per restare al tema delle corrispondenze, ricordiamo che esso è ampiamente trattato nei testi di Raphael, indipendentemente dalla presupposizione delle influenze dirette:
«Da quanto è stato esposto sul Platonismo si possono desumere queste concordanze con l’advaita Vedânta di Samkara […] Samkara e Platone sono dei rettificatori della visione rispettivamente Vedânta e Misterica degradata nella mani di sacerdoti non qualificati all’espletamento del loro compito. […] La filosofia di Platone è la continuazione dell’insegnamento Orfico e Pitagorico. […] L’advaita Vedânta di Samkara segue la stessa strada, rifacendosi ai Veda-Upanisad»8.
Facendo un bilancio degli studi compiuti, alcuni dei quali sono stati qui richiamati, non pare proprio che le ricerche orientate a dimostrare i prestiti dall’India abbiano fatto molta strada: se di influssi diretti vogliamo parlare, in linea di massima essi non vanno molto oltre l’area mediterranea. Le testimonianze degli antichi sui viaggi di Talete, Democrito, Pitagora…, non permettono certo di sostenere di per sé la tesi dei prestiti.
I vari riferimenti presenti nelle opere platoniche, inesauribile miniera di importantissime informazioni, non riguardano certo il lontano Oriente, quanto piuttosto la Grecia preclassica. È da notare che lo stesso Guénon si è interessato di tale periodo, propendendo per una sua crescente rivalorizzazione, cosa che d’altronde sembra perfettamente in sintonia con lo spirito tradizionalista presente negli esponenti della grecità, dei quali Platone offre un esempio eccellente, che le parole di G. Colli ci aiutano a mettere a fuoco:
«Platone chiama filosofia, amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata a un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo. Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i sapienti […] l’amore della sapienza sta più in basso della sapienza. Amore della sapienza non significa infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto»9.
II passato venerato da Platone raramente si allontana dai confini del mondo ellenico, restando comunque localizzato attorno al Mediterraneo, così che sembra lecito sostenere l’idea di una tradizione occidentale cui partecipava anche la Grecia arcaica, e sarebbe interessante passare in rassegna le numerosissime indicazioni coerenti con tale idea riportate nei Dialoghi, e non certo per mania d’erudizione: inutile dirlo, una ricerca del genere esige un lavoro a parte, ed implica una rilettura del Platonismo, e forse dell’intera filosofia greca, al di fuori degli schemi riduttivi ed inattendibili utilizzati dalla consueta storiografia. Eppure, è in questa direzione che occorre muoversi, anche secondo Guénon, il quale in una recensione del 1933 al testo di G. Méautis, L’âme hellénique d’apres les vases grecs, afferma:
«Dove siamo completamente d’accordo con lui, è quando protesta contro l’abitudine di ricollegare tutta quanta la civiltà greca al solo periodo classico; noi pensiamo che le epoche anteriori, se potessero essere meglio conosciute, sarebbero molto più degne di interesse…».
L’indagine guenoniana, a dire il vero, già a partire da Il Re del Mondo (1927) aveva cominciato a battere tale strada, con risultati promettenti, facendo riaffiorare elementi significativi appartenenti a tali epoche, tra i quali possiamo ricordare: l’Omphalos di Delfi, «centro spirituale della Grecia antica»10; i sette saggi della Grecia, i quali sono «una rappresentazione dei sette Rishi nei quali si sintetizza la saggezza del ciclo immediatamente anteriore al nostro», il Minosse dei Greci, il cui nome corrisponde a quello di «Manu, il Legislatore primordiale e universale»; la quercia di Dodona, in Epiro, la quale «rappresentava l’Albero del Mondo, simbolo dell’asse fisso che congiunge i Poli», la Terra Pura, «che Platone attribuisce in particolare al soggiorno dei Beati»11
Tutti questi contenuti, e moltissimi altri ancora, sono rintracciabili nelle opere platoniche, ed il fatto non è certo casuale, bensì segnala l’esistenza di innumerevoli collegamenti, certamente noti agli uomini dell’Accademia, tra l’epoca classica e quella precedente, così che quella non è comprensibile senza il riferimento a quest’ultima.
Nel testo sopra citato, Guénon fa notare le corrispondenze tra i simbolismi di varie forme tradizionali, occidentali ed orientali, senza più presupporre prestiti necessari da una parte o dall’altra, e questo atteggiamento viene sostanzialmente conservato nelle opere successive, e talvolta espressamente formulato. Si può riproporre qui quanto egli dice a proposito dei Pitagorici, «i quali appartengono al periodo di transizione tra la Grecia arcaica e la Grecia classica»12.
II Pitagorismo è sempre ben considerato da Guénon, che infatti lo difende contro le critiche ingiustificate di J. Evola13, e in vari interventi mette in evidenza il valore delle dottrine pitagoriche, tramite commenti profondi e adeguati alto scopo.
Nell’opera La Grande Triade (pubblicata per la prima volta nel 1946), esponendo il significato del simbolismo dei numeri pari e dispari, presente in varie tradizioni, così scrive:
«La dualità dello yang e dello yin si ritrova anche nel campo dei numeri: secondo lo Yi-king, i numeri dispari corrispondono allo yang, cioè sono maschili o attivi, e i numeri pari corrispondono allo yin, cioè sono femminili o passivi. In questo non vi è peraltro nulla che sia peculiare alla tradizione estremo-orientale, dato che tale corrispondenza è conforme a quanto insegnano tutte le dottrine tradizionali; in Occidente, essa è nota soprattutto attraverso il Pitagorismo, e forse taluni, immaginando che si tratti di una concezione propria a quest’ultimo, rimarrebbero assai stupiti nell’apprendere che la si ritrova tale e quale addirittura in Estremo Oriente, senza che sia ovviamente possibile presupporre in questo il minimo prestito da una parte o dall’altra»14.
Notiamo di sfuggita che quanto detto sui numeri trova una precisa conferma in quanto è attestato nei frammenti pitagorici prevenutici, quali quelli del medico Alcmeone di Crotone e di Filolao15.
Stranamente gli eruditi, così scrupolosi in certi dettagli, hanno completamente perso di vista tali testimonianze, e continuano a sostenere la concezione, riduttiva e fuorviante, della matematica pitagorica quale scienza meramente quantitativa. In realtà, la dottrina dei numeri opposti, proprio perché non ha semplicemente tale carattere, è applicata in varie scienze ed arti tradizionali, in Oriente ma anche in Occidente, come è il caso della medicina pitagorica e probabilmente anche di quella ippocratica, che deriverebbe dal Pitagorismo16.
Per tornare al nostro tema principale, ricordiamo infine che i Pitagorici
«non facevano altro che riadattare insegnamenti assai più antichi; Platone si è ispirato a tale dottrina (cosmologica) e l’ha seguita molto più fedelmente di quanto non si creda di solito: e in parte per suo tramite che ne è giunto qualcosa a filosofi posteriori» (La Grande Triade…, cit., pag. 93).
Qui Guénon sta discutendo della distinzione tra spirito, anima e corpo, e delle analogie tra microcosmo e macrocosmo: si tratterebbe, ancora una volta, non di prestiti dall’esterno, ma di riadattamenti di quanto era già presente nel mondo greco arcaico, o comunque nell’Occidente tradizionale.
Per quanto fin qui detto, si potrebbe obiettare che ci si è rapportati all’ambito cosmologico, più che a quello propriamente metafisico; i prestiti, esclusi nella parte cosmologica, potrebbero esservi in quella metafisica. Ma di questo parleremo in seguito, anche se è difficile pensare ad una cosmologia separata dalla metafisica, dato che
«la cosmologia, considerata dal punto di vista tradizionale, non potrebbe mai esser separata dai principii metafisici, di cui essa costituisce anche una delle applicazioni più dirette»17.
I greci: naturalismo, umanesimo, religione e mito
Tratteremo in modo sintetico questi punti, limitandoci a fornire alcuni orientamenti di fondo. Per quanto riguarda il “naturalismo”, lo stesso Guénon arriverà ad ammettere che esso non può esser attribuito ai Greci in generale, ma solo ad alcune correnti, non le principali, che hanno recepito in modo riduttivistico certi insegnamenti preesistenti, come quelli pitagorici, i quali invece consideravano
«un quaternario fondamentale che comprendeva prima di tutto il Principio, trascendente rispetto al Cosmo, poi lo Spirito e l’Anima universale, e infine la Hyle primordiale. […] In quanto al Principio trascendente, per certi versi esso corrisponde al Cielo della Grande Triade, ma per altri si identifica anche con l’Essere o l’Unita metafisica. […] Comunque sia, gli Stoici deformarono tale insegnamento in un senso naturalistico, perdendo di vista il Principio trascendente e conservando solo un Dio immanente che, per loro, si identificava semplicemente allo Spiritus Mundi» (La Grande Triade…, cit., pag. 93-94).
In effetti, non si può passare sotto silenzio il fatto che il naturalismo riduttivistico ed immanentistico è sempre stato criticato dalle scuole pitagoriche e platoniche; a mo’ di esempio, possiamo ricordare la polemica particolarmente significativa del platonico Plutarco contro simili concezioni:
«In secondo luogo, e questa è la cosa più importante, bisogna avere grande attenzione e scrupolo a non cancellare e dissolvere senza accorgersi la realtà divina in vènti e corsi d’acqua e semine e arature e accidenti della terra e passaggi di stagione. […] Chi la pensa così, insomma, introduce concezioni pericolose e tendenti all’ateismo»18.
Nel corso dell’esposizione, Plutarco nomina proprio uno stoico, Cleante, successore di Zenone, come uno dei responsabili di concezioni inadeguate del divino; sui limiti dello Stoicismo, si possono consultare anche altri testi di Plutarco, e specialmente Delle nozioni comuni contro gli stoici e Delle contraddizioni degli stoici19, in cui si trovano riferimenti che implicano alcune tangenze con il problema che stiamo affrontando. In ogni caso, la critica al mero naturalismo è un impegno costante di Plutarco e più in generale delle correnti spirituali cui egli stesso si ispira; si può sintetizzare il punto di vista delle sopracitate correnti, ricordando che le realtà naturali non vengono assolutizzate in quanto tali, ma concepite quali simboli di realtà sovrasensibili.
«Quello che intendo sostenere è che per loro tramite si può onorare la divinità, dato che la natura stessa le ha generate come i più chiari specchi del divino, riconoscendo in loro lo strumento e l’arte del dio che ha ordinato l’universo» (Plutarco, Iside e Osiride 76 b).
Quanto detto da Plutarco corrisponde molto bene alle fin troppo note affermazioni platoniche secondo cui questo mondo sensibile «è immagine dell’intelligibile» (Timeo 92 C), e «ciò che nel mondo intelligibile il bene è rispetto all’intelletto […] nel mondo visibile è il sole rispetto alla vista» (Stato, VI, 508 C). Come si può notare, non vi è posto per il naturalismo deteriore nelle concezioni delle scuole tradizionali elleniche, e quando esso si presenta, compare quale rimaneggiamento di esse.
Le considerazioni svolte a proposito del “naturalismo”, possono essere riproposte pari pari nel caso dell'”umanesimo”, nella misura in cui la critica in entrambe le circostanze presuppone il riferimento ad una dimensione oltre-naturale ed oltre-umana, che ne qualifica la portata metafisica: tutto questo riguarda da vicino la Grecia classica, il cui orientamento spirituale risulta ottimamente condensato nella celebre sentenza platonica secondo cui «non l’uomo, ma il dio è misura di tutte le cose».
Rispetto ai miti, riconosciuti da molti studiosi quale prezioso retaggio della tradizione preclassica20, è possibile un duplice atteggiamento: l’attaccamento ai racconti tramandati in quanto tali, implicante un’adesione esteriore e superficiale alla “lettera”, sinonimo di sostanziale incomprensione, oppure l’interpretazione di essi quali simbolizzazioni di contenuti metafisici, che d’altronde non sono passibili di espressioni più veritiere…
Certo, Platone stesso si trova in difficoltà di fronte a certi antichissimi racconti riguardanti gli dei, e nei Dialoghi compaiono varie ammissioni di questo genere (su ciò insiste Guénon nell’Introduzione generale allo studio della dottrine indù), ma la cosa non deve stupire più di tanto, perché si tratta di recuperare il significato di simbolismi appartenenti a forme tradizionali precedenti, operazione tutt’altro che semplice: tuttavia, l’Accademia si è impegnata moltissimo in tale direzione, e Guénon stesso valorizza in sommo grado la riuscita di ciò, quando scrive che
«Platone è ricorso all’uso dei miti per esporre concezioni che superavano la portata dei suoi abituali mezzi dialettici; e questi miti, che certamente egli non ha affatto inventato ma soltanto adattato, poiché portano il marchio incontestabile di un insegnamento tradizionale, sono ben lungi dal non essere che gli ornamenti letterari più o meno trascurabili che vi scorgono troppo spesso i moderni […] essi rispondono invece a ciò che vi è di più profondo nel pensiero di Platone, di più libero dalle contingenze individuali, e che egli non può, a causa di questa stessa profondità, esprimere che simbolicamente».
In aggiunta a ciò, poiché «la distinzione che si è voluta talvolta stabilire tra miti e simboli è in realtà infondata» e «il mito, prima di ogni deformazione, era essenzialmente un racconto simbolico»21, le riflessioni precedentemente svolte circa l’interpretazione dei fenomeni naturali in quanto simboli possono essere avanzate anche riguardo ai miti, nella misura in cui essi non sono semplici prodotti della fantasia individuale. Se in certi momenti della storia greca tale fantasia individuale dei poeti ha prevalso, contribuendo all’oblio dei significati più profondi, non sono certo mancate le occasioni volte alla reminiscenza: ed in fondo, forse è proprio questo il senso ultimo, tutt’altro che trascurabile, della filosofia greca, poiché esso concerne quella sophia cui la ricerca non può non tendere22.
Dialettica e metafisica
La dialettica dei Greci è stata valutata secondo varie prospettive, alcune delle quali effettivamente estranee a qualsiasi orientamento metafisico: queste ultime non possono comunque riguardare la dialettica platonica, che certo non è riducibile ad astratte sottigliezze, incapaci di conclusioni significative, tesi peraltro cara a quei contemporanei, e sono molti, i quali vorrebbero ridurre Socratismo e Platonismo, per non dire l’intera filosofia, nei termini di un inesauribile esercizio dialettico, ipercritico e razionale, dai contorni perennemente indefiniti, credendo e pretendendo di individuare in ciò l’essenza stessa del filosofare.
Quando Platone mette in correlazione dialettica e conoscenza intellettuale, intende proprio evitare il pericolo di ridurre la prima a semplice gioco confutatorio fine a se stesso, ed infatti essa è proibita ai troppo giovani, dato che potrebbero abusarne facendone un utilizzo puramente distruttivo ed ipercritico:
«i giovincelli, non appena assaporano la dialettica, se ne servono come per gioco, usandola sempre più per contraddire[…] Ecco perché sono screditati essi stessi e coinvolgono nel discredito l’intero mondo della filosofia […] coloro che si faranno partecipare alla dialettica devono avere natura ordinata e ferma; e non le si deve accostare il primo che capita, per di più senza la minima disposizione» (Stato, VII, 539 B-C-D).
La dialettica che interessa a Platone è avvio all’episteme, cioè alla scienza non ipotetica: essa infatti conduce oltre le ipotesi, verso l’intuizione intellettuale dei principii non ipotetici, a partire dai quali vengono fondate le deduzioni razionali che di per sé sole non potrebbero aver valore. Questo uso della dialettica sembra corrispondere a quanto afferma Guénon, quando scrive che «nelle nostre mani essa è solo uno strumento al servizio di principii (metafisici)» (Oriente e Occidente, pag. 238).
Ma qual è la consistenza della metafisica nel mondo greco? Questo è senza dubbio uno degli interrogativi più significativi posti da Guénon, il quale ha certo delle ragioni per sostenere che, oggi, lo studio della metafisica greca non può che trarre vantaggi se viene condotto a partire dalle dottrine indù ed islamiche, ed egli stesso ha fornito indispensabili precisazioni in proposito, insistendo sulla completezza delle seconde rispetto alla prima. Aggiungiamo però che tale accennata incompletezza sembra essere più che altro la proiezione dei limiti interpretativi dei moderni, incapaci di svincolarsi da categorie razionalistiche che finiscono per offrire un’immagine mutilata di ciò a cui vengono applicate.
Abbiamo indicato, nella parte iniziale, alcune critiche rivolte da Guénon al pensiero greco, di cui verrebbero individuati una serie di limiti (l’attaccamento alla parzialità, al finito, all’indefinito, alla forma…), da cui forse solo il Neoplatonismo riuscirebbe a sottrarsi, e non per virtù propria. Su tali questioni, vogliamo fornire qui alcune segnalazioni che danno da pensare, e che impongono alcune rettifiche.
Come in India e altrove, anche nella tradizione greca che fa capo all’omphalos delfico, è centrale la dottrina del Sé e dell’lo, compendiata nel “conosci te stesso”, oggetto di innumerevoli travisamenti psicologistici da parte dei filosofi moderni, salvo qualche rara eccezione, tra cui Ada Somigliana, la quale considera «la conoscenza di se stesso come supremo vertice della conoscenza» e scrive che
«l’Atma-vidya o scienza di se stesso […] consiste essenzialmente nel prendere coscienza della natura divina della propria anima. […] Questo concetto, per quanto comune a diversi popoli, è sentito ed espresso in forma diversa secondo le epoche, la cultura, le tendenze spirituali di ciascuno»23.
Tale dottrina, ben presente nelle scuole pitagoriche e platoniche, è giustamente definita da A. Coomaraswamy «la dottrina fondamentale della philosophia perennis»24, e non a caso egli dedica ad essa pagine preziose, ricche di annotazioni di alto valore.
Quanto a Guénon, egli è tornato sull’argomento a varie riprese (vedi per esempio L’uomo e il suo divenire secondo il Vedânta), qui però vogliamo citare un suo articolo del 1931, intitolato per l’appunto Conosci te stesso25, dove si dice che
«l’origine dell’espressione che stiamo considerando è ben anteriore a questi tre filosofi [Pitagora, Socrate, Platone]; anzi essa è ancora più antica della storia della filosofia […] Si dice che queste parole fossero scritte sul frontone del tempio di Apollo a Delfo. Esse furono in seguito adottate da Socrate e altri filosofi […] Con ciò questi filosofi si proponevano di mostrare che il loro insegnamento non era strettamente personale, risalendo esso ad un’epoca più antica e ad una visione più elevata».
Lo stesso articolo termina così:
«Quando l’uomo conosce se stesso nella sua essenza profonda, cioè nel centro del suo essere, allora egli conosce il suo Signore, e conosce nello stesso tempo tutte le cose che da Lui vengono e a Lui ritornano. Egli conosce tutte le cose nell’unità suprema del Principio divino, al di fuori del quale, secondo le parole di Muhyddin Ibn Arabi, non vi è assolutamente nulla che esista, poiché nulla può esistere al di fuori dell’Infinito».
Aggiungiamo solo che alta portata metafisica del precetto delfico, elogiato da Guénon, Platone ha dedicato in particolare l’Alcibiade primo, proprio con lo scopo di dissolvere quei fraintendimenti soggettivistici che toglierebbero al precetto in questione qualsiasi valore sapienziale, ed anche per Platone la parte più profonda dell’anima è «quella ove risiedono conoscenza e pensiero» e «se la si fissa, si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino»26.
Come si può facilmente intuire, l’insegnamento che se ne ricava, non avendo nessun significato meramente umanistico, testimonia una volta di più il trascendimento dell’umanesimo cui abbiamo accennato in precedenza.
Se ci è concesso di spostarci alcuni secoli dopo Platone, possiamo citare il neoplatonico Porfirio, secondo il quale «ciò a cui si fa ritorno non è altro che il sé essenziale […] Ora, l’essenziale del nostro essere è il nous», indicato simbolicamente come il centro, cui si arriva dopo aver tolto «gli involucri esteriori ed interiori»27. Come si può notare, vi è una grande continuità di pensiero impersonale a scavalcare i secoli, permettendo di collegare il pitagorismo delfico al neoplatonismo, senza che si debba supporre necessariamente un qualche prestito orientale nei casi citati, anche perché, secondo Guénon,
«il pitagorismo fu essenzialmente una restaurazione in forma nuova del precedente orfismo e, per i suoi legami evidenti col culto delfico dell’Apollo iperboreo, può perfino venir considerato come un filiazione continua e regolare di una delle più antiche tradizioni dell’umanità»28.
Risulta evidente che il pitagorismo non può quindi essere considerato una semplice filosofia razionalistica, dato il suo rapporto con la saggezza, «inerente alla realtà dell’essere come totalità». Inoltre, la scuola di Pitagora
«ha esteso la sua influenza, attraverso la scuola di Platone, sino al neoplatonismo della scuola alessandrina, nel quale essa riappare chiaramente, così come presso i neopitagorici della stessa epoca»29.
Tutto questo induce ad una più attenta valorizzazione delle correnti di cui si è detto, indipendentemente dai possibili rapporti con forme tradizionali del lontano Oriente, che comunque non sembrano esser stati decisivi nemmeno nel caso del Neoplatonismo, data la sua autonoma capacità, come vedremo, di innalzarsi fino all’Infinito metafisico. Per quanto riguarda questo tema, sono stati soprattutto i moderni a compiere grossolani errori concettuali, confondendo l’infinito e l’indefinito; su equivoci del genere, qui non possiamo che rinviare alle precisazioni fornite da Guénon in varie opere30.
A proposito dei Greci, occorre invece ribadire la nota sentenza platonica, secondo cui «solo chi è capace di vedere l’intero, è filosofo» (Stato, VII, 537 C), la quale indica a chiare lettere la finalità eminentemente metafisica del Platonismo, in quanto tensione verso la totalità. È ben vero che, al tempo di Platone, la dottrina della Totalità universale non è stata messa per iscritto, non più di tanto, facendo parte di quelle dottrine “Intorno al bene” esaminate solo nelle lezioni orali all’interno dell’Accademia, cautela che testimonia la preziosità dell’argomento: negli scritti platonici compaiono solo dei cenni, che però non mancano di essere significativi, soprattutto se collegati ai chiarimenti forniti successivamente dagli eredi dell’Accademia.
Porfirio, nell’esporre il percorso della realizzazione spirituale, afferma che occorre «fare ritorno all’essere senza colore e qualità»31, espressione che nelle scuole dell’epoca indica l’oltrepassamento di ciò che vincola al finito e alle forme; il linguaggio porfiriano non sembra provenire da altre tradizioni, presenta anzi una straordinaria somiglianza, certo non casuale, con quanto attesta Platone quando allude a quella
«essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza […] non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti» (Fedro, 247 C-D-E).
In aggiunta, ricordiamo che anche A. K. Coomaraswamy ha riconosciuto la portata metafisica di tale passo del Fedro, scrivendo: «Cosa si intenda con vidya contrapposta ad avidya, risulta chiaro in Fedro, 247 C-E»32.
Circa i contenuti cui si è accennato, possiamo trovare preziosi ampliamenti negli scritti di Plotino, ovviamente ben noti al discepolo Porfirio che ne ha curato la sistemazione. Ecco come Plotino nelle Enneadi parla dell’Uno o Bene che dir si voglia:
«Non è qualcosa ma è anteriore a ciascuna cosa e non è nemmeno essere; poiché l’essere possiede, per così dire, una forma, la forma dell’essere; ma Quegli è non formale, privo finanche della forma spirituale […] non è dunque qualcosa, né qualità, né quantità, né spirito, né anima, né mobile, né immobile, né in un luogo né in un tempo […] è il senza-forma, superiore ad ogni forma, moto o quiete. Queste determinazioni infatti son proprie dell’essere» (Enneadi, VI, 9°, 3).
«Dev’essere al di sopra di tutte le potenze e le forme: principio informale, e non già perché sia bisognoso di forma, essendo ciò da cui dipende ogni forma» (VI, 7°, 32).
«L’essenza, nata dall’Uno, è una forma, ma non una forma determinata, bensì la forma universale, che non lascia fuori di sé alcun’altra forma; è dunque necessario che l’Uno sia senza forma. Essendo informale, non è essenza. […] Non essendo nessuna di tali cose, si può dire solo che è al di là di esse. Ora, queste cose sono gli esseri e l’essere; dunque l’Uno è al di là dell’essere. E dire ciò […] è solo affermare che non è questo o quello. Con questo non lo si vuol affatto abbracciare; sarebbe infatti ridicolo cercare di delimitare quella natura infinita» (V, 5°, 6).
«Questi è l’infinito. […] Non ha dunque figura, perché non ha parti né forma» (V, 5°, 11).
«Si deve concepirlo come infinito non perché sia interminabile quanto a grandezza o numero, ma per il fatto che la sua potenza non è circoscritta» (VI, 9°, 6).
Come si può constatare da questi e altri riferimenti, che si esplicitano da soli, e che corrispondono molto bene a quanto Guénon stesso ha esposto negli scritti più metafisici, il Neoplatonismo non risulta affatto condizionato dal formale, anzi pare senza dubbio orientato verso il sovraformale e l’infinito metafisico, senza nulla dovere all’Induismo o ad altre tradizioni, come a volte è stato ipotizzato. Tra l’altro Plotino, che certo non aspira all’originalità e fornisce una testimonianza il cui valore è fuori discussione, indica il fondatore dell’Accademia quale sua principale fonte dottrinaria, non qualche maestro indù, e non a caso accosta ripetutamente l’Uno o Infinito al Bene di Platone, proprio per evidenziare una sostanziale continuità di pensiero.
D’altronde, proprio Platone aveva scritto che «il Bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza» (Stato, 509 B). Tale espressione viene ripresa alla lettera da Plotino, e da altri prima di lui; compare, per esempio, anche nel Trattato sul bene di Numenio di Apamea (II secolo d.C.), cosa che attesta l’importanza di tale dottrina e la sua conservazione e trasmissione nei secoli, all’interno dei sodalizi platonici e pitagorici. Come si può intuire da quanto sopra detto, le dottrine “Intorno al bene” portano oltre il formale e l’essere, e segnalano la presenza autonoma di una dottrina dell’Infinito metafisico quanto meno nelle scuole citate.
Un dato così rilevante risulta quasi completamente trascurato, o incompreso, nelle consuete storiografie, ma la cosa non desta meraviglia più di tanto. Da tale imperdonabile leggerezza ha cercato di distanziarsi il Mondolfo, e possiamo dargli ragione quando conclude il capitolo XVII del suo libro sull’infinito33 con queste parole:
«l’infinità divina della teologia neoplatonica non si può considerare di origine esclusivamente orientale, né estranea né, tantomeno, repugnante al genio ellenico; al quale già apparteneva come germinazione autoctona, avente in esso pieno diritto di cittadinanza, per esser nata dallo stesso sviluppo spontaneo della speculazione greca».
(Diciamo questo, anche se gran parte del testo del Mondolfo, più che l’Infinito metafisico, concerne l’indefinito, e proprio questo dovrebbe essere il titolo più appropriato dell’opera citata).
Sulla base della panoramica proposta, si può senz’altro affermare che la filosofia greca, considerata nelle sue componenti più vitali, è caratterizzata dalla presenza di istanze metafisiche le quali risultano essere tutt’altro che episodi sporadici della storia del pensiero: tra l’altro, occorre rilevare che mentre le correnti meramente razionalistiche sono restate ai margini, Pitagorismo, Platonismo e Aristotelismo hanno permeato di sé anche la civiltà islamica e quella cristiana medievale, che non hanno potuto fare a meno di tale preesistente apparato dottrinario.
Per restare al mondo occidentale, si potrebbe anzi dire che la civiltà medievale ha dato il meglio di sé proprio nella misura in cui è riuscita, in modo tutt’altro che lineare, a fondere Cristianesimo e metafisica greca in quella che viene definita “scolastica”, esempio notevole di adattamento del pensiero classico alle condizioni storiche del Medio Evo. Con la scolastica medievale, intesa in senso non restrittivo, è prevalso il metodo, laborioso e paziente, dell’unificazione organica e qualitativa34: possiamo anzi aggiungere che la sua forza è risultata direttamente proporzionale alla capacità di sussumere gli elementi tradizionali preesistenti, rinunciando agli atteggiamenti esclusivistici che avevano caratterizzato ad un certo punto la storia della cristianità; tale metodo ha permesso ad un tempo la rivitalizzazione del Cristianesimo dopo la caduta del Trecento34 e quella della saggezza greca, altrimenti destinata, forse, a cadere nell’oblio.
II fatto che il Cristianesimo riconquisti una dimensione metafisica anche per il tramite della Grecia classica non è cosa di poco conto, e meriterebbe una speciale riflessione. Non può essere un caso, del resto, che le forme più degenerate del Cristianesimo siano proprio quelle, antimetafisiche, che si sono ampiamente sviluppate nel mondo moderno, a partire da Lutero ed Erasmo, i quali (sulla scia di Occam) hanno criticato aspramente la scolastica perché troppo vicina allo spirito dei Greci.
In altri termini, date le mutate condizioni, problemi del genere si ripropongono anche oggi, là dove vi sia la dovuta attenzione per quanto di tradizionale, nonostante tutto, è presente nel mondo attuale: certo non è facile vederne la soluzione pratica, specie quando si suppongono scorciatoie consistenti in rinascite dei già falliti esclusivismi e in avventurose assimilazioni forzate da parte di qualche forma tradizionale esistente, perdendo di vista altre possibilità. Del resto, chi poteva prevedere con largo anticipo la sintesi scolastica, dopo le contrapposizioni anche violente di prima? Chi poteva prevedere che proprio la civiltà cristiana avrebbe contribuito a salvare dalla dimenticanza la sapienza greca?
È possibile oggi una nuova potente sintesi, adatta ai tempi? A quest’ultima domanda non possiamo dare una risposta, e comunque essa dovrebbe oltrepassare di gran lunga i limiti che qui ci siamo imposti. In ogni caso, sembra indispensabile rinnovare e sperimentare oggi quello spirito autenticamente ecumenico che ha caratterizzato la Grecità e qualsiasi altra esperienza di civiltà radicata nella tradizione; da questo punto di vista, non si può restare insensibili al programma di A.K. Coomaraswamy di una “summa della philosophia perennis“, programma delineato nell’avvertenza al suo testo Induismo e Buddismo, testo che in effetti sembra quasi volerla anticipare, dato che vi appaiono numerosi e importantissimi collegamenti tra le varie correnti spirituali, non ultima la filosofia greca:
«Abbiamo citato non pochi testi paralleli platonici e cristiani importanti per facilitare mediante contesti più familiari l’esposizione di certe dottrine indù e per dimostrare che la philosophia perennis è dappertutto e sempre identica a se stessa.»35
Queste citazioni non costituiscono un contributo alla storia della letteratura, né vogliono suggerire che vi siano stati imprestiti di dottrine o di simboli in un senso o nell’altro36. Crediamo che il contributo di Guénon, e non solo riguardo ai Greci, possa essere altamente valorizzato nella misura in cui si inserisce in un tale programma, di cui si avverte l’estrema necessità, anche per le possibilità operative che potrebbero dischiudersi per quanti amano la verità e ritengono che il materialismo e il nichilismo non siano il destino dell’Occidente.
Note
1- René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Studi Tradizionali, Torino 1965, pag. 28.
2- René Guénon, Oriente e Occidente, Studi Tradizionali, Torino 1965, pagg. 87, 216-217, 98.
3- P. Friedlaender, Platone, La Nuova Italia, Firenze 1979, pagg. 255-256.
4- E. Zeller, La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1932, pagg. 50-51.
5- A. Somigliana, Monismo, indiano e monismo greco nei frammenti di Eraclito, Cedam, Padova 1961.
6- La rivista “Sophia” (Cedam, Padova) ha pubblicato diversi articoli di A. Somigliana, tra i quali ricordiamo: Le figurazioni allegoriche del proemio di Parmenide (1965), Denominativi di Dio nel linguaggio teologico degli antichi (1 965),Gli arii e il linguaggio simbolico del pensiero antico (1967), Cosmogonie orientali e filosofia presocratica (1968), La via della conoscenza e taluni aspetti della speculazione greca arcaica (1969), Divinazione e filosofia nell’antichità(1970).
7- A. Somigliana, Gli arii e il linguaggio simbolico del pensiero antico, in “Sophia”, luglio-dicembre 1967, pag. 229.
8- Raphael, Iniziazione alla filosofia di Platone, Asram Vidya, Roma 1984, pagg. 149, 151-152.
9- Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1985, pagg. 13-14.
10- René Guénon, Il re del mondo, Adelphi, Milano 1985, pag. 89. In nota, aggiunge che “vi erano, in Grecia, altri centri spirituali, ma più particolarmente riservati all’iniziazione ai Misteri, come Eleusi e Samotracia”. L’importanza dell’iniziazione eleusina era stata richiamata in precedenza in L’esoterismo di Dante.
11- René Guénon, Il re del mondo, Adelphi, Milano 1985, pagg. 67, 71, 25, 109.
12- Recensione del 1940 al testo di P. Galimard, Hippocrate et la tradition pythagoricienne. Questa ed altre recensioni citate, a suo tempo pubblicate in “Le voile d’Isis” ed “Etudes traditionelles”, sono ora disponibili in René Guénon, Recensioni, All’insegna del Veltro, Parma 1981.
13- Cfr. la recensione del 1934 al testo di Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno. Per quanto riguarda la polemica di Evola contro il Pitagorismo, cfr. anche l’altro suo libro, La scuola di Pitagora. I versi d’oro, Atanàr, Roma 1980.
14- René Guénon, La Grande Triade, cit., pag. 73.
15- Cfr. M. Timpanaro Cardini, Pitagorici. Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1958.
16- Cfr. la citata recensione al testo di P. Galimard ed inoltre La Grande Triade, pag. 39. Anche Rudolf Steiner ha ritenuto la medicina ippocratica derivata da una sapienza precedente, cfr. soprattutto la sua opera Scienza dello spirito e medicina, Antroposofica, Milano 1983, pagg. 15-17.
17- Recensione del 1950 al testo di Simon de Guaita e Oswald Wirth, Le probleme du mal, ora in René Guénon, Recensioni, cit.
18- Plutarco, Iside e Osiride, 66 D-E.
19- I testi citati sono reperibili nella raccolta intitolata Plutarco, Gli opuscoli contro gli stoici, 2 voll., Verifiche, Trento 1976.
20- A. Rivaud per esempio ha scritto che “tutta la parte mitologica del Crizia è scrupolosamente conforme alle tradizioni greche. Anche là dove si crede di constatare qualche differenza, è possibile che Platone segua una versione a noi sconosciuta” (A. Rivaud, Critias, Les Belles Lettres, Paris, pag. 248). Quel che Rivaud accetta nel caso del Crizia, può esser esteso alle parti mitologiche delle altre opere platoniche, parti che inoltre non hanno un valore meramente essoterico, come il critico francese è portato a credere.
21- René Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, Basaia, Roma 1982, pagg. 168-169, 164-166.
22- “Dovrebbe essere evidente che philosophia non sia menomamente sophia, saggezza; normalmente non può essere in rapporto a quest’ultima che una preparazione o un avviamento; si potrebbe dire che la filosofia divenga illegittima quando non ha più per scopo di condurre a qualche cosa che la oltrepassi” (Considerazioni sulla via iniziatica, cit., pag. 181).
23- A. Somigliana, Gli arii e il linguaggio simbolico, cit., pag. 267.
24- Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Rusconi, Milano 1987, pag. 85.
25- L’articolo è stato poi tradotto in italiano e pubblicato nella “Rivista di studi tradizionali” n. 23, aprile-giugno 1967.
26- Platone, Alcibiade primo, 133 C.
27- Porfirio, De abstinentia, 29-4 e 31-4.
28- René Guénon, La crisi del mondo moderno, Mediterranee, Roma 1985, pag. 31.
29- René Guénon, Conosci te stesso, cit.
30- Les principes du calcul infinitésimal, Gallimard, Paris 1946 e Gli stati molteplici dell’essere, Studi Tradizionali, Torino 1965.
31- Porfirio, De abstinentia, 30-4.
32- Ananda K. Coomaraswamy, Figura di parola o figura di pensiero?, saggio del 1946 ora ripubblicato in Il grande brivido, Adelphi, Milano 1987, pag. 41.
33- R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, La Nuova Italia, 1956.
34- Lo si può paragonare per certi versi al “metodo dell’unità” di cui paria Syed Hossein Nasr in Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano 1974.
35- Guénon riconosce che nell’età di Costantino il Cristianesimo in linea di massima risulta ormai sprovvisto del carattere esoterico che aveva in origine, presentandosi come semplice religione, e tale cambiamento “era già un fatto compiuto all’epoca di Costantino e del concilio di Nicea” (Considerazioni sull’esoterismo cristiano, Studi delle Tradizioni, Firenze s. d., pag. 17). Guénon più che di caduta parla di “discesa”, cercando di giustificare tale cambiamento.
36- Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, cit.