di MAURO BARGELLINI
Le dottrine non scritte sono così chiamate sulla falsariga di un’espressione che si legge nella Fisica di Aristotele (209b 14-15) dove, parlando del problema della materia, egli riporta separatamente l’interpretazione che Platone ne ha dato nel Timeo e in quelle che lui chiama appunto “dottrine non scritte”. Aristotele però anche nella Metafisica (in particolare nei Libri I, XIII, XIV) riporta, pur non chiamandole esplicitamente dottrine non scritte, teorie che attribuisce a Platone e che non sono da lui esplicitate nei Dialoghi, ma da lui riferite presumibilmente nella sua Accademia e nella conferenza Peri agatoòn (Intorno al Bene).
Esistono, poi, testimonianze orali che sono state tratte oltre che da Aristotele, dai suoi discepoli e commentatori (Teofrasto, Aristosseno, Alessandro di Afrodisia) dal neoplatonico Simplicio, dal matematico Ermodoro da Siracusa e dal neoscettico Sesto Empirico.
Con il nome generico di “dottrine non scritte” si intendono, quindi, le dottrine non scritte vere e proprie e tutte le testimonianze orali raccolte sul filosofo.
Prima di parlare delle suddette dottrine è pero necessario far notare brevemente che il nucleo centrale della filosofia di Platone è costituito dalla dottrina delle Idee, che nasce dall’esigenza di conciliare le conclusioni di Parmenide, secondo cui tutto è uno e immutabile, con l’evidenza del divenire che si riscontra nella realtà sensibile, messa in risalto da Eraclito con il suo “panta rei” ( tutto scorre).
Per Platone, infatti, tutte le cose sensibili sono opinabili, perché in esse non si trova mai la perfezione dei concetti universali, dato che esse appaiono diverse a seconda dei punti di vista, perché partecipano solo in parte alla perfezione dei concetti.
Ebbene, questo concetto che non muta viene chiamato da Platone idea (da eidos=idea, forma). L’idea per lui è la forma autentica della realtà e non può essere assolutamente opinione. L’idea, quindi, non è il semplice concetto, ma un’entità dotata di esistenza autonoma, una specie di oggetto eterno che vive eternamente al di fuori della coscienza degli uomini.
Così Platone concilia Parmenide con Eraclito, individuando due condizioni di esistenza: quelle delle idee fisse e immutabili (il mondo intellegibile), percepibile solo dal puro intelletto, e quelle degli enti sensibili (il mondo sensibile, sempre in divenire), percepibile dai sensi.
Le idee risiedono nell’Iperuranio (da hyper= oltre, e ouranos=volta celeste), in una regione, cioè, al di là del tempo e dello spazio.
Le dottrine non scritte hanno assunto un’importanza rilevante a partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, quando due studiosi dell’università tedesca di Tubinga, Konrad Gaiser e Hans Kramer, e successivamente i loro più recenti continuatori dell’Università Cattolica di Milano, G. Reale e M. Migliori (per cui si usa parlare di “scuola di Tubinga/Milano”) le posero a base di un nuovo modo di interpretare Platone, ritrovando nell’insegnamento orale di Platone il nucleo centrale del suo pensiero. Per essi, i Dialoghi platonici avrebbero solo una funzione subordinata, in parte preparatoria alla vera filosofia, e in parte rammentativa (ossia utile a ricordare le cose). Tanto che gli stessi Dialoghi, per essere perfettamente compresi, dovrebbero essere intesi solo sullo sfondo di tali dottrine.
A titolo di esempio, leggiamo cosa scrive Aristotele in Metafisica I 6, 987 a 29 :
Dopo le filosofie di cui si è detto, sorse la dottrina di Platone, la quale, in molti punti, segue quella dei Pitagorici, ma presenta anche caratteri propri. Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo, e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti, egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli, allora, denominò codeste realtà Idee, e affermò che i sensibili esistono accanto ad esse e che vengono tutti denominati in base ad esse; infatti, per partecipazione alle Forme. Inoltre, egli afferma che, accanto ai sensibili e alle Forme, esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna forma è solamente una e individuale.
Poiché, quindi, le Forme sono cause delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il grande e piccolo, e come causa formale l’uno: infatti riteneva che le forme e i numeri derivassero per partecipazione del grande e piccolo all’uno. Per quanto riguarda l’affermazione che l’uno è sostanza, e non qualcos’altro di cui esso si predichi, Platone si avvicina molto ai Pitagorici; e, ancora, come i Pitagorici, egli ritiene che i numeri siano causa della sostanza delle altre cose. Invece, è una caratteristica peculiare di Platone l’aver posto, in luogo dell’illimitato inteso come unità, una dualità, e l’aver concepito l’illimitato come derivante dal grande e piccolo. Platone, inoltre, pone i numeri fuori dal sensibile, mentre i Pitagorici affermano che i numeri sono le cose stesse
E ancora, Simplicio, in Commentario alla Fisica di Aristotele, pag. 51, righe 6-19
Alessandro dice: “ Secondo Platone, i principi di tutte le cose e delle Idee medesime sono l’uno e la dualità indeterminata, che egli chiamava grande e piccolo”. Ma si potrebbe apprendere questo anche da Speusippo e da Senocrate e dagli altri che assistettero al corso “Intorno al bene” di Platone, e dicono che egli fece uso di questi principi.
In altre parole, le testimonianze sul Platone orale, accolte dalla scuola di Tubinga/Milano, illustrano una complessa dottrina metafisica dei principi, che doveva servire come completamento e perfezionamento della dottrina delle idee esposta nei Dialoghi, e all’interno della quale la teoria delle idee costituisce soltanto una parte.
Questa dottrina è in primo luogo una ricerca delle cause simile a quella condotta dai presocratici, e volta cioè a ritrovare i principi e gli elementi delle cose. Tale ricerca, per il modo di pensare caratteristico dei greci, si configura come un processo che parte dal molteplice per raggiungere l’unità. Stando così le cose, è chiaro che la necessità di porre dei principi superiori alle idee è implicita nella teoria delle idee medesime, per il fatto che ciascuna idea, pur essendo una in rapporto al molteplice sensibile, fa pur sempre parte di un insieme di idee.
Questi principi primi sono l’Uno (principio dell’unità) e il “grande-e-piccolo “, o “Diade indefinita“ (principio della molteplicità).
La Diade non è ovviamente il numero due, così come l’Uno nel senso di Principio non è il numero uno. Ambedue questi Principi hanno statura metafisica.
La Diade è concepita come modalità di grande-e-piccolo nel senso che è infinita grandezza e infinita piccolezza, in quanto è tendenza all’infinitamente grande e all’infinitamente piccolo.
Essa è una molteplicità indeterminata e indefinita che, fungendo come substrato all’azione dell’Uno, produce la molteplicità delle cose in tutte le sue forme.
I due Principi sono, pertanto, ugualmente originari. L’Uno non avrebbe efficacia produttiva senza la Diade, anche se risulta gerarchicamente superiore alla Diade. Si ha quindi non un dualismo, ma un bipolarismo, in quanto un Principio esige l’altro in maniera strutturale.
Subito dopo i due Principi supremi, c’è il piano delle Idee e altri enti ideali (questi ultimi articolati in vario modo, ma di cui non si può entrare in dettaglio perché il discorso ci porterebbe troppo lontano) e infine il mondo delle cose sensibili.
L’altra importante caratteristica della scuola di Tubinga/Milano è quella che per interpretare in modo completo tutti i Dialoghi è necessario privilegiare l’oralità sulla scrittura e rendere determinanti le cosidette “autotestimonianze“, ossia alcune considerazioni fatte da Platone stesso nel Fedro (a) e nella VII Lettera (b). Vediamole in dettaglio.
a) Nel Fedro Platone svolge un discorso assai serrato e compatto che si può scandire in sei punti successivi, molto ben articolati
- La scrittura non accresce la sapienza degli uomini, bensì accresce l’apparenza del sapere (ossia l’opinione): inoltre non rafforza la memoria, ma offre solo un mezzo per richiamare alla memoria cose che già si sanno.
- Lo scritto è inanimato e non è capace di parlare in modo attivo: esso, inoltre è incapace di aiutarsi a difendersi da solo contro le critiche, ma richiede sempre l’intervento attivo del suo autore.
- Molto migliore e molto più potente del discorso consegnato alla scrittura è invece il discorso vivente e animato, mantenuto nella dimensione della oralità e mediante la scienza impresso nell’anima di chi impara; perché il discorso scritto è come un’immagine, ossia una copia, di quello attuato nella dimensione dell’oralità.
- La scrittura implica gran parte di gioco, mentre l’oralità implica una notevole serietà; e per quanto quel gioco in certi scritti possa essere molto bello, molto più bello risulta l’impegno che l’oralità dialettica richiede intorno agli stessi temi di cui trattano quegli scritti, e molto più validi sono i risultati che essa raggiunge.
- Lo scritto, per essere condotto a regola d’arte, implica una conoscenza del vero dialetticamente fondata, e, nello stesso tempo una conoscenza dell’anima di colui a cui è diretto, e quindi la conseguente strutturazione del discorso dovrà essere riferita alle capacità di colui al quale è diretto.
- Scrittore e filosofo è colui che ha composto opere sapendo come sta il vero, e che, pertanto, è in grado di soccorrerle e di difenderle quando occorre, ed è quindi in grado di dimostrare in che senso le cose scritte sono di minor valore rispetto alle cose di maggior valore che egli possiede, ma che non ha affidato agli scritti, perché li riserva unicamente all’oralità.
b) Nella VII Lettera Platone riprende la dottrina esposta nel Fedro in relazione allo scritto e ne esplica addirittura alcuni punti in modo chiarissimo.
Anche il procedimento di queste autotestimonianze è ben congegnato e si scandisce in quattro punti.
1) In primo logo Platone spiega in che cosa consistesse la “prova“ alla quale egli sottoponeva coloro che si accostavano alla filosofia, al fine di accertare se essi fossero o no in grado di praticarla. Tale prova consisteva in una presentazione preliminare della filosofia nel suo complesso e nell’illustrazione di ciò che essa comporta, e in particolare nell’illustrazione delle fatiche che implica. E le persone che venivano sottoposte in questa prova, in generale assumevano due atteggiamenti opposti.
Se colui che veniva sottoposto alla prova possedeva una natura idonea alla filosofia, giudicava in maniera del tutto positiva la via che è peculiare alla filosofia e richiedeva di poterla subito percorrere.
Se, invece, colui che veniva sottoposto alla prova non aveva una natura idonea alla filosofia e le sue conoscenze si riducevano a personali opinioni, reagiva in maniera negativa di fronte al gran numero di cose da apprendere e alla fatica che occorreva fare. Di conseguenza, costui si convinceva immediatamente di avere ascoltato quanto bastava sulla totalità della realtà e non si sottoponeva agli ulteriori e necessari impegni.
2) Illustra, subito dopo, i risultati pessimi della prova a cui aveva sottoposto Dionigi di Siracusa, il quale, dopo avere ascoltato una sola lezione di Platone, ritenne di poter mettere per iscritto addirittura ciò che riguarda le cose “più grandi“, ossia proprio quelle cose intorno alle quali Platone negava fermamente la convenienza e l’utilità dello scritto, spiegandone le ragioni.
3) Per far capire meglio queste ragioni, Platone si richiama ad alcuni argomenti di fondo, per concludere che se uno scrittore è serio, le cose che egli affida allo scritto non sono le cose più serie, dato che lo scrittore-filosofo mantiene queste cose riposte nella parte migliore di sé (ossia, nella propria anima).
4) Di conseguenza, Dionigi e chi ha scritto di quelle cose, che per Platone sono le cose supreme, non lo ha fatto per buone ragioni, bensì per cattivi scopi.
I principi esposti dalla scuola di Tubinga/Milano non sono ancora stati accettati dalla maggior parte della dottrina accademica nazionale e internazionale, per un triplice ordine di motivi, variamente collegabili gli uni agli altri:
a) La tradizione indiretta si deve in gran parte ad Aristotele e ad altri, come abbiamo visto sopra, ma in generale Aristotele non è una fonte storicamente attendibile per ricostruire il pensiero dei suoi predecessori, poiché egli non è uno storico della filosofia, ma un filosofo che utilizza i suoi predecessori per mettere in risalto le cose da lui dette.
b) La tradizione indiretta contiene dottrine che sono sorte in ambiente accademico, e alla cui elaborazione hanno partecipato altri esponenti della scuola (Speusippo e Senocrate) per cui non è corretto parlare senz’altro di dottrine platoniche.
c) Le dottrine riportate dalla tradizione indiretta sono sì platoniche, ma se accortamente interpretate risultano essere solo delle rielaborazioni delle dottrine consegnate da Platone agli scritti. Questa tesi si basa sul fatto che le teorie platoniche trasmesse da Aristotele nella Metafisica non sono mai da lui denominate “dottrine orali”. Ma in ogni caso, anche se Aristotele avesse ricavato le sue informazioni direttamente da Platone in persona, rimarrebbe il fatto che fra le due fonti non ci sono differenze essenziali. Pertanto, la tradizione indiretta non avrebbe grande influenza sulla ricostruzione generale del pensiero platonico (questa è in particolare la tesi di Kenneth Sayre).
Tra coloro che invece riconoscono una qualche importanza alla tradizione indiretta, il denominatore comune è che in essa sia contenuta una rielaborazione della dottrina delle idee che Platone avrebbe compiuto solo a partire da un tardo periodo della sua vita.
In tal modo le possibili differenze tra le dottrine esposte nei dialoghi e quelle tramandate da Aristotele in alcuni punti della sua opera (non dimentichiamo il fatto che Aristotele cita spesso anche i dialoghi) si spiegherebbero in termini di evoluzione. Si avrebbe quindi, secondo Enrico Berti, una prima fase della filosofia di Platone caratterizzata dalla dottrina delle Idee ed esposta nei dialoghi, e una seconda fase caratterizzata da principi e numeri (oltre che dalle Idee stesse), esposta da Platone solo oralmente.
La questione rimane aperta. L’importante è che il problema sia stato posto; poi, a ognuno sta il fare le proprie considerazioni.