Yoga in Occidente significa spesso – oggi come un tempo – spiritualismo superficiale e accattone. Dalle mode occultiste d’inizio Novecento alla reductio ad wellness tutta contemporanea: un fil rouge di mistificazioni attraversa e avvelena la nostra civiltà – e le sue rovine. Si tratta tuttavia di un segnavia indicatore, testimone di un interesse pervasivo del nostro immaginario. Una fascinazione sperimentata pure da spiriti magni, la cui raffinata disamina della pratica orientale continua a stimolare approfondimenti e ricerche serie, capaci di riunire il coinvolgimento esistenziale più accorato con la posata impostazione ermeneutica richiesta allo studioso. Così si può evincere come il tanto diffuso hatha-yoga, ad esempio,
non si limita alla regolazione dell’igiene del corpo né a una medicina-ginnastica. Esso non è una scienza filologica (come si ritiene in Europa), bensì un sentiero pratico nella realizzazione dell’emancipazione, una via che raccomanda il disciplinamento e la padronanza assoluta del corpo e della mente.
Queste parole, che pesano come macigni sulle fallacie che quotidianamente risuonano nell’età della chiacchera, richiamano l’importanza di una comprensione autentica di questa forma culturale e spirituale tanto arcaica quanto evocativa. Dello yoga, grande esperto europeo fu lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986), di cui è stato recentemente pubblicato in Italia, per le Edizioni Mediterranee, Psicologia della meditazione indiana, a cura di Horia-Corneliu Cicortaş – volume da cui proviene la precedente citazione.
Questo testo è un vero gioiello editoriale: si tratta della tesi di dottorato in filosofia sostenuta da Eliade a Bucarest nel giugno del 1933, nella sua prima traduzione italiana. Una ricerca fondamentale, quella di Eliade, la cui rielaborazione e revisione portò l’autore a pubblicare, nel maggio del 1936, il celeberrimo Yoga. Essai sur les origines de la mystique indienne, seguito da altre ricerche complementari che lo consacrarono nel pantheon degli studiosi di religioni indiane: Techinques du Yoga (1948), Le Yoga. Immortalité et liberté (1954), Patañjali et le yoga (1962). L’importanza di questo testo, tuttavia, non è riposta soltanto nel suo valore documentario, ma affonda le proprie radici nelle intuizioni pionieristiche – in larga parte tuttora valide – che animarono la scrittura eliadiana. Una prosa forse a tratti ingenua, ma che riecheggia ancora della potenza estatica del viaggio in India con cui Eliade volle studiare lo yoga e il tantrismo nel loro contesto asiatico – anche attraverso l’apprendimento del sanscrito – e nella prospettiva (comparata) della storia delle religioni.
Un viaggio reso possibile dalla consapevolezza eliadiana, ben illustrata da Cicortaş, di essere
ormai custode di un’India interiore, scoperta sullo sfondo di una passione, tutta romantica, per le discipline “sotterranee” della cultura europea e per temi poco esplorati degli universi “esotici”, quali l’alchimia asiatica e il tantrismo.
Un’esperienza di studio – presso Surendranath Dasgupta – e di pratica di hatha-yoga – nello Svarga Ashram, vicino Rishikesh – che segnarono profondamente l’esperienza del giovane Eliade, condensandosi, sul piano editoriale, in un’intensa attività di pubblicazioni divulgative, ma anche specialistiche, prevalentemente di argomento orientalistico. Si trattò di un florilegio di studi volto a diffondere in Occidente le conoscenze acquisite e a guadagnare progressivamente, in Europa, lo status di specialista della cultura religiosa indiana. Ma fu anche, in senso più contingente, un’esperienza redazionale che correva in parallelo agli studi accademici di Eliade, che nel 1933 si trovò a discutere la propria tesi di dottorato.
Al suo interno, evidente e feconda è la pluralità di metodi impiegati: se i capitoli V e VI seguono un approccio schiettamente filosofico, la metodologia generalmente impiegata nello studio risponde alla specificità della concezione eliadiana di storia delle religioni, intesa come un sapere multidisciplinare in cui filologia, filosofia della religione, psicologia, antropologia ed etnologia si trovano congiunte. Un mare magnum di sapere che diventa emblema di una vera e propria filosofia della cultura. Al centro del volume lo yoga, inteso nella sua duplice valenza: nel senso più ampio di unione col divino, in riferimento alla totalità delle vie spirituali indiane, e in quello più specifico di sistema filosofico (darśana) fondato sugli insegnamenti di Patañjali. La tesi fondamentale proposta da Eliade è che all’interno dello yoga siano posti in relazione dialettica due componenti fondamentali della spiritualità indiana – e universale, si potrebbe aggiungere: la magia e il misticismo.
Lo yoga raduna cioè nella propria essenza una corrente religiosa e devozionale, dai tratti teistici, e un approccio più radicale, di tipo magico, orientato alla conquista della liberazione tramite un’esperienza individuale, priva di condizionamenti – persino trascendenti. Queste due forme non si danno mai in modo puro, ma sempre storicamente condizionato, spurio pertanto. Lo yoga, tuttavia, mostra con chiarezza la propria essenza magica laddove accetta un universo magico, una relazione infinita tra forze concrete, orchestrate da una legge oggettiva, il karma, e allo stesso tempo sostiene la possibilità di superare quest’universo attraverso isolamento e dominio. La pratica meditativa è lo strumento principe della conquista di tale autonomia spirituale. La meditazione yogica infatti, come ben intuì Julius Evola, è pratica generatrice di potenza, una potenza addirittura superiore alla forza karmica. Questa prospettiva, verso cui Eliade mal cela una profonda fascinazione, tende storicamente a perdersi nella cultura indiana:
Sarebbe interessante seguire la rivolta dello spirito indiano contro la struttura magica dell’ascetismo e della meditazione. La scoperta degli dèi personali, la scoperta dell’esperienza mistica (bhakti), in una parola l’instaurazione della preghiera al posto dell’ascetismo (…) indicano altrettante tappe nella sostituzione della meditazione ascetica, magica con l’esperienza diretta, religiosa, dell’esistenza fiduciosa nella liberazione tramite la grazia divina, e della gioia dell’identificazione col Dio.
Per giungere alla formulazione di questa acuta ermeneutica religiosa, Eliade intesse un percorso di ricerca in cui si confronta con variegate tematiche: la metodologia plurale impiegata, giacché ogni esclusività di metodo è quantomeno non scientifica, la quale sembra preludere alle intuizioni fondamentali della fenomenologia o ermeneutica religiosa teorizzata alla luce del Nuovo Umanesimo eliadiano; la genesi storica dello yoga, individuata nel processo d’interiorizzazione rituale dei culti vedici che segna una transizione epocale in India, all’interno della stessa polarità dialettica fra popoli ari e dravidici; lo studio comparato di tematiche religiose e metafisiche nel buddhismo e nella filosofia sāṃkhya; la distinzione, fondamentale per i lettori europei, fra psicanalisi occidentale e psicologia yoga: se la prima attribuisce al subconscio un’origine per eccellenza sessuale, lo yoga riconosce il subconscio in ogni dimensione condizionata dall’illusione io-anima e ritiene possibile dominarlo, mediante il trascendimento dell’esperienza; l’inserimento della pratica yoga entro i temi che saranno centrali nella speculazione dell’autore e di cui si può vedere in questo locus un primo abbozzo: il senso del rituale come armonizzazione della coscienza individuale con quella suprema, lungo la via del ripristino dell’armonia cosmica originaria; il superamento dei contrari nella coincidentia oppositorum, da intendersi come obiettivo finale di ogni cammino spirituale; la ricerca dell’annullamento dello stato psichico normale al fine di una reintegrazione che porta i tratti di una palingenesi totale.
Tutti temi fondamentali, questi, per una comprensione accresciuta della pratica yogica. Di questa ricerca misteriosa, i cui tratti solo apparentemente superomisti e individualisti vengono smascherati da Eliade, che spiega come
le lodi più grandi si devono tributare non allo yogin, completamente distaccato dai dolori e dalle gioie mondane, ma a colui che considera come proprie il dolore e la gioia altrui (…). Dopo che l’attività psichica individuale è distrutta e i limiti – creati dall’ignoranza e dalla sete della vita – crollano, si plasma una nuova coscienza, sovra-individuale, in cui la sensibilità e i nuclei volitivi non sono più alimentati dall’interesse egoistico, ma dall’amore per tutti gli esseri.
Un passaggio che, non a caso, viene colto dallo stesso Julius Evola – che con Eliade intrattenne un interessante scambio epistolare – discutendo dell’Individuo Assoluto:
Ad un tale livello vi sarà un moltiplicarsi dell’Io e un suo rimanere, nel contempo, identico a sé stesso; e l’Io, l’Unico, potrà sentirsi indifferente quanto al suo “luogo”, vale a dire, cessa di esser legato quanto al particolare soggetto e alla particolare autocoscienza (Teoria dell’Individuo Assoluto).
Da Oriente a Occidente, insomma, lungo i sentieri della realizzazione.
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