di Paolo Scroccaro
L’Advaita Vedânta è il Vedânta (compimento dei Veda) della Non-Dualità, solitamente considerato il vertice della spiritualità indù, poiché per la sua universalità non intende contrapporsi alle altre correnti ortodosse (darshana, cioè punti di vista), ma le “comprende” e le rispiega a partire da un angolo visuale più ampio.
Il Platonismo è l’espressione più completa della Metafisica nell’Occidente tradizionale, e come tale ha permeato per molti secoli la civiltà greco-latina, più tardi influenzando anche i settori della Cristianità meno fideistici e più sensibili a valide istanze realizzative. Il suo influsso nel Sufismo è stato ancor più considerevole, non a caso in tali ambienti Platone viene onorato quale “imam della sapienza”.
Advaita Vedânta e Platonismo sono per lo più accostati ai nomi di Shankara e Platone, quasi come se essi fossero gli escogitatori di tali dottrine; in realtà, tali dottrine sono radicate in tradizioni preesistenti, ed essi furono semplicemente importanti interpreti o codificatori di esse, al pari dei Saggi delle Upanishad, di Gaudapâda, dei successori di Shankara, al pari di Licurgo, di Pitagora, di Plutarco, di Porfirio, di Giuliano Imperatore, ecc.
In quanto massime espressioni della Sophia Perennis, Advaita Vedânta e Platonismo presentano straordinarie convergenze sulle nozioni fondamentali, talvolta espresse con formulazioni diverse, che in ogni caso si lumeggiano a vicenda. Ci soffermeremo su alcune importanti convergenze, tra cui quelle sotto segnalate, che contrassegnano l’a-b-c della Metafisica in quanto tale.
La funzione dei miti e dei simboli: l’approccio “esoterico” ad essi è indispensabile per oltrepassare le ristrettezze del letteralismo, tipico della religiosità inaridita, poiché non vivificata da istanze d’ordine intellettivo e metafisico.
Platone, Shankara e i rispettivi discepoli hanno denunciato apertamente l’attaccamento insipiente alla semplice lettera dei testi sacri e degli antichi miti, così come il ritualismo incompreso. È noto che Platone ha fatto un uso magistrale dei miti per supportare l’intuizione della dottrina, mentre Shankara ha commentato in modo altrettanto magistrale i simbolismi vedici. La denuncia di cui sopra è importante anche oggi, considerando lo stato d’ottusa solidificazione in cui versano le forme religiose attuali.
Non-dualità: tale espressione vuole indicare che la metafisica, in quanto apertura all’Infinito, è esente da Dualità, da contrapposizioni rigide e da qualsiasi riduzionismo unilaterale (cioè da qualsiasi tentativo di ridurre la ricchezza del reale ad un solo termine).
Infinito: cioè il Reale per eccellenza, che in quanto tale nulla lascia fuori di sé e che quindi sussume qualsiasi altra realtà, necessariamente parziale e finita; esso è detto anche Brahman nirguna (cioè senza qualità limitative), Âtman, Sé, Bene (v. Platone), Uno sovraformale (v. Plotino e Porfirio)…1
Come aprirsi all’infinito? Tale apertura è il senso ultimo di qualsiasi sâdhanâ (disciplina, sentiero realizzativo). L’esistenza ordinaria è “prigionia”, poiché incatenata al Finito, cioè alle Forme limitative (ego, ricchezza, oggetti di consumo etc.); la disciplina del Non attaccamento è premessa indispensabile per superare l’attaccamento incatenante, che spinge a dare valore assoluto a ciò che è relativo, il quale diventa così sovrapposizione velante (Mâyâ, Upâdhi, le Ombre della caverna di Platone).
Aspetti della disciplina realizzativa: le varie scuole possono utilizzare metodi molto diversi, tuttavia permangono alcune linee generali, compendiabili nella nozione di Purificazione (dall’ego, dal contingente). In questo contesto, emergono sostanziose analogie tra le Virtù cardinali del Platonismo e le regole ascetiche vedantine, supporti indispensabili per una trasformazione interiore salvifica e pacificante (metànoia).
Buddhi-nous: nel processo d’espansione coscienziale rivolto all’Infinito, vengono messe in gioco le diverse capacità conoscitive, tra le quali esiste una gerarchia non arbitraria: in ultima analisi, essa poggia sui diversi gradi d’apertura coscienziale connessi alle varie facoltà. Buddhi per il Vedânta, Nous per il Platonismo, occupano il vertice di tale gerarchia perché capaci, almeno in potenza, di un’apertura totale (il mito della caverna di Platone esemplifica in modo insuperabile quanto sopra).
Il conoscere sovraindividuale: ovviamente, qualsiasi trasformazione spirituale ha come punto di partenza l’individuo, considerato nella sua globalità corporea e animica. In tale stadio iniziale, è giocoforza che l’io tenda a privilegiare le facoltà meramente individuali (sensi, manas, ragione …), capaci di una conoscenza per lo più egocentrica o comunque antropocentrica, poiché funzionale ai calcoli dell’io o di certi gruppi umani. Tuttavia, nel corso dell’itinerario realizzativo, ciò che inizialmente prevaleva, viene via via ridimensionato a favore di un’istanza universale sovraindividuale (Sé, Atman, Intelletto universale, Buddhi …).
Contemplazione e realizzazione: solo il sostare dell’anima, cioè il permanere nel silenzio interiore, nella sospensione mentale esente da desideri-attaccamenti-passioni-turbamenti… , permette l’esperienza contemplativa quale sguardo disinteressato e distaccato sull’essere, non condizionato dagli intenti manipolativi che caratterizzano le esperienze ordinarie e quelle della tecno-scienza (che appartengono al dominio di manas-ragione). L’esperienza contemplativa può allargarsi e volgersi all’Assoluto, non nel senso che l’Assoluto diventi oggetto di conoscenza: essendo Infinito, non può diventare “oggetto” di qualcos’altro, altrimenti non sarebbe tale. Solo l’Infinito può conoscere l’Infinito. La coscienza buddhica-noetica, in quanto capace d’espansione totale, può sperimentare l’Infinito in quanto lo realizza interiormente.
Yoga, cioè Unione o Identità suprema con l’Infinito-universale, è il fine ultimo della metafisica vedantina e platonica (e di qualsiasi metafisica in quanto tale).
Coscienza cosmica-universale: il saggio realizzato si colloca stabilmente nello stato di pura coscienza osservante, di puro testimone (Âtman, Intelletto sempre in atto) di ciò che i mortali considerano gli eventi del mondo. Lo sguardo cosmico del saggio è impassibile-inamovibile; lo sguardo dei mortali è sempre fluttuante, iperagitato, selettivo: essi focalizzano certi contenuti a discapito di altri, assecondando l’instabilità delle preferenze del momento; essi scrutano con inquietudine l’apparire e lo scomparire degli enti, in base alle loro particolari esigenze, che comportano necessariamente la polarità attrazione-repulsione, piacere-dolore (di qui la mancanza di universalità e la presenza di Dualità-Dvaita a vari livelli).
Equanimità: la coscienza pura di cit-intelletto sempre in atto, essendo eterna apertura universale, è Accogliente nei riguardi di qualsiasi Ente, senza preclusioni; in tale posizione coscienziale, o anche solo in prossimità ad essa, in luogo dell’attrazione-repulsione, o di altre polarità consimili, appare l’Equanimità, congiunta ad un proporzionato grado di beatitudine (ananda), nella misura in cui nessun evento può alterare l’imperturbabilità dell’osservatore equanime, che è tale poiché trascende qualsiasi forma di contrapposizione dualistica (il compimento perfetto di tale trascendimento coincide con il Nirvana, in quanto estinzione del soffio agitante)2.
Note
- Nei manuali liceali e universitari, troviamo a questo proposito quasi sempre incredibili distorsioni interpretative, che impediscono una corretta comprensione della dottrina.
- Certamente, si potrà obiettare che tale orizzonte realizzativo appare inattingibile, non essendo alla portata delle esistenze ordinarie intrappolate nella caverna-mâyâ, e quindi nei flussi delle polarità oppositive; tuttavia, poiché vi sono diversi gradi di condizionamento e di decondizionamento, ognuno dovrebbe chiedersi: Qual è la cosmicità della mia apertura coscienziale? Qual è la consistenza dei miei attaccamenti? Di quanta equanimità sono capace nei riguardi degli esseri umani e non umani? La semplice risposta a queste domande procura una consapevolezza che può garantire ulteriori sviluppi e favorire la dialettica ascensiva di quel “pensiero alato” che conduce all’Iperuranio, là dove sono piantate le nostre radici (v. Timeo 90 a-b) e quelle dell’intera vita cosmica (v. Katha Upanishad, II, VI, 1).